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Sexting, revenge porn e cessione di materiale pedo-pornografico

Sexting, revenge porn e cessione di materiale pedo-pornografico.

Quando si configura il reato.

Se stabilire le cause sottese alla devianza minorile appare estremamente difficile, maggiori perplessità derivano dal tentativo di rintracciare la matrice delittuosa nei cd. comportamenti abitualmente posti in essere dagli adolescenti.

Studi legano la tendenza a delinquere dei soggetti in età evolutiva alle condizioni socio-economiche in cui versano gli stessi, unitamente al rapporto affettivo con gli esercenti la responsabilità genitoriali.

Altri, dottrina minoritaria, alla tendenza personale del soggetto.

Spesso la commissione dei reati deriva unicamente dalla scarsa consapevolezza del disvalore sociale sotteso al compimento di determinate azioni.

Quest’ultima affermazione sembrerebbe giustificare e fungere da chiosa alle varie teorie.

Quindi il minore cresciuto in ambienti scarsamente stimolanti, connaturati da profonde problematiche economiche ovvero da privazione affettiva avvertirà di fatto in maniera diversa il disvalore del sillogismo azione/reato rispetto al minore saturo di attenzioni (affettive ed economiche)?

Se questo potrebbe essere condivisibile per l’alveolo di reati contro il patrimonio sanzionati dal legislatore, problematiche diverse offrono i cd. reati contro la persona.

Il progresso scientifico e tecnologico, nelle società moderne, hanno sviluppato strumenti di comunicazione sempre più rapidi, favorendo da un lato la celerità delle comunicazioni, ma producendo, di riflesso, un processo di depersonalizzazione del soggetto.

Da portatore di diritti e doveri si giunge a divenire “merce”, mettendo in crisi l’idea che tutto ciò che riguarda la nostra persona sia possibile di azioni commerciali.

Basti pensare che se prima la stragrande maggioranza di materiale pornografico e pedo-pornografico presente nell’etere fosse di provenienza illecita, adesso gran parte proviene dalla condivisione degli stessi dai medesimi soggetti raffigurati nelle immagini (selfie, video amatoriali)

Scambi ritenuti personali da parte di soggetti che difficilmente hanno piena consapevolezza dei rischi che si nascondono dietro tali rappresentazioni.

Tale tendenza di commodification finiscono quindi per abbracciare ogni aspetto dell’essere umano, anche quello tendenzialmente intimi e privati quali il sesso.

Si pensi ai vari problemi inerenti le ipotesi di compravendita di parti del corpo, alle tecnologie riproduttive (omologhe ed eterologhe), alla prostituzione, per giungere alla pornografia ovvero pedo-pornografia.

Tali strumenti tendono ad abbracciare le più svariate fasce di età, trovando campo fertile ed incontaminato in quelle più deboli ovvero vulnerabili come i bambini.

Le varie categorie dei fenomeni rientranti nella pedofilia online si rifanno a due principali filoni, quello relativo ai contenuti delle immagini e quello relativo ai contatti intercorsi tra vittima ed abusante.

Nuovi luoghi virtuali ospitano attualmente profili criminali di altissimo livello, quali in particolare l’uso sempre più frequente e diffuso dei servizi di anonimato e crittografia, soprattutto attraverso le Reti Darknet (in italiano rete scura ovvero una rete privata), che impongono nuove difficoltà nelle indagini per l’individuazione e il perseguimento dei responsabili.

Sulla base di ciò l’attuale suddivisione della materia, condivisa a livello internazionale, è orientata nel seguente schema:

La protezione di tali soggetti, vulnerabili in quanto in via di formazione e sviluppo, non può che passare anche dal controllo e da una codificazione della rete.

Tale consapevolezza portò nel 1988 alla regolamentazione di determinate fattispecie di reati.

Richiamando la Convenzione dei diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’ordinamento interno con legge n.276/1991, sono stati introdotti dal Legislatore Italiano gli artt. 600 ter e 600 quarter

Muta la società, mutano i fruitori della rete, mutano i soggetti colpiti dal fenomeno, si moltiplicano dunque gli interventi del legislatore.

Primo fra tutti quello attuato con la legge 38/2006 nell’ottica di adeguare la normativa interna alla decisione quadro n.2004/68/GAI adottata dal consiglio europeo il 22 dicembre 2003.

Merita qui segnalare che la legge di riforma modificava l’elemento oggettivo della fattispecie di produzione di materiale pornografico, sostituendo al discusso verbo “sfruttare” il termine “utilizzare” ed eliminando il dolo specifico del reato

Chi realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico, utilizzando minori degli anni diciotto […]

Al fine di rendere quanto più coesa e pregnante la tutela offerta allo sviluppo psicofisico dei minori veniva dunque ampliata la fattispecie criminosa alla diffusione nonché alla semplice “offerta” di materiale pedo-pornografico.

Con la stesura dell’art. 600 quarter, tendente a punire la produzione, la messa in circolazione a vario titolo e la detenzione di materiale pornografico virtuale (rappresentazione dunque di comportamenti reali attraverso tecniche grafiche di realtà virtuale), si ha un ulteriore estensione dei fatti penalmente punibili.

Un processo di espansione che non tende ad arrestarsi quindi.

E’ del 2012 infatti l’ulteriore riforma della disciplina della pornografia minorile.

E’ infatti in questo caso la  Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007, assunta dal Consiglio di Europa  per la protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali,  a sancire nuove forme di reato tra i quali ad esempio: adescamento di minorenni (anche attraverso internet), istigazione e apologia di pratiche di pedofilia e pedo-pornografia.

Sebbene la materia continui dunque a crescere, in un processo osmotico tra l’ordinamento interno e le esigenze di integrazione europeistiche, l’obiettivo comune sotteso resta quella di punire tutte le fasi del mercato della pornografia minorile.

Prima di tali, ultimi, interventi, la dottrina tutta si era lamentata circa la mancanza di un’espressa definizione di pedo-pornografia.

Parte di quest’ultima era giunta con il considerare (tenuto conto del carattere semantico e sistematico) necessario il realizzarsi di un atto sessuale da parte del minore o sullo stesso ritenendo che solo in tali casi la sua sessualità venisse in gioco in modo tale da provocare un effettivo pericolo per lo sviluppo della sua personalità.

Sicuramente una visione restrittiva della vicenda essendo necessario per il suo estrinsecarsi un realistico e pieno contatto fisico tra i soggetti.

 

La dottrina maggioritaria e successivamente anche la giurisprudenza sono intervenute, sempre in un’ottica garantista, accogliendo una nozione decisamente più ampia, ritenendo compreso ogni oggetto o spettacolo consistente essenzialmente in: manifestazioni o sollecitazioni dell’istinto sessuale dei produttori o dei fruitori.

Il sexting (sex (sesso) e texting (pubblicare testo), consiste nell’invio e/o ricezione e/o condivisione di messaggi con video o immagini sessualmente allusive attraverso internet ovvero in maniera ancora più celere smartphone.

– sexting primario, quando è il protagonista dell’immagine a diffondere la foto a terzi;
– sexting secondario, quando la diffusione a terzi avviene ad opera di una persona diversa da quella ripresa nell’immagine (che ha poi inviato la foto la prima volta).

Naturalmente, se le parti coinvolte sono maggiorenni e consenzienti, il sexting è legale.

L’invio di tali materiali a soggetti non consenzienti può avere gli estremi del reato di molestie o stalking.

La Cassazione (sez. VI, sent. n. 32404/2010) ha infatti sostenuto che integra il reato di atti persecutori (stalking) il reiterato invio alla vittima di sms o di messaggi di posta elettronica o postati sui cd. social networks, nonché la divulgazione su questi ultimi, di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima vittima. Per non parlare, ovviamente, dell’illecito trattamento di dati personali altrui.

Discorso diametralmente diverso merita l’analisi del caso in cui siano ritratti minori: inviare le foto a terzi può configurare il reato di distribuzione di materiale pedopornografico.

Anche il solo conservare tali foto nel proprio dispositivo può configurare il reato di possesso di materiale pedopornografico.

La scarsa consapevolezza circa il materiale scambiato, la fiducia riversata nella persona che riceve il suddetto sprigionano innumerevoli conseguenze, a volte del tutto inaspettate.

Secondo una ricerca di Skuola.net per la polizia si Stato il 15% di ragazzi, in età scolare, hanno denunciato di aver subito la condivisione (senza alcun consenso) con terzi di materiale pornografico ovvero sessualmente esplicito; nel 49% casi la motivazione addotta è stata lo scherzo.

Inutile dire che nessun legislatore, avrebbe avuto l’ardire di immaginare tale evoluzione sociale, e infatti l’art. 600 ter nella sua formulazione iniziale, non era pronto a trattare questo tipo di condotte.

Innegabile quindi il diffondersi della tendenza narcisistica di ritrarsi in prima persona in video o auto scatti per poi diffonderli in rete.

In merito a ciò, con sentenza n.11675 del 2016 la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato come la normativa attuale sulla pedo-pornografia non risulti adeguata a far fronte alle emergenti esigenze.

Nella specie il caso riguardava alcune fotografie (pornografiche) scattate autonomamente da una minorenne e inviati dalla stessa ad alcuni amici (a loro volta minorenni), per poi essere nuovamente condivise con terzi.

Per tutti veniva formulata l’imputazione di cessione di materiale pedo–pornografico ex art. 600 ter comma4 c.p.

Tuttavia i giudici di merito rilevarono che il reato di cui all’art.600-ter comma 4 non fosse configurabile nel caso di specie, in quanto ad essere sanzionata fosse la cessione di materiale pedo pornografico a condizione che fosse stato realizzato da un soggetto diverso dal minore raffigurato, mentre i selfie incriminanti erano stata scattati e inviati agli imputati proprio dalla minore,

pertanto veniva esclusa la ricorrenza del reato di cui all’art. 600 ter comma 4 c.p. non considerando la minore “utilizzata”

Su ricorso presentato dal P.M. anche la Suprema Corte si allineava a tale interpretazione.

Di fatto gli Ermellini affermavano che il reato de quo sanzionasse si la cessione di materiale pedo pornografico, ma a condizione che questo fosse stato realizzato da un soggetto diverso rispetto al minore raffigurato, giungendo a distinguere nettamente il soggetto utilizzatore dal minore utilizzato.

Nel caso posto in esame, le immagini erano state auto-scattate direttamente dalla vittima, senza alcuna coercizione e da quest’ultima volontariamente cedute ad altri, si che essa non poteva ritenersi “mercificata”.

La Corte di Appello di Milano (sentenza del 12 marzo 2014), nell’escludere la sussistenza del reato di detenzione di materiale pedopornografico in relazione ad un soggetto che aveva ricevuto e conservato foto ritraenti una minore, ha ritenuto che per stabilire se vi sia utilizzazione del minore occorre valutarne il consenso prestato, alla luce degli elementi concreti del caso.

Va dunque tenuta presente l’età del minore, le modalità di richiesta del consenso, il coinvolgimento di terzi, la destinazione successiva delle immagini autoprodotte, e così via.

De quo, presupposto necessario per la configurabilità della fattispecie di reato previste dal secondo comma e seguenti dell’art 600 ter è costituito dall’alterità ed alla diversità tra il minore rappresentato nel materiale pornografico e il soggetto che produce il materiale stesso.

Tale interpretazione, sebbene chiara e rispettosa del dato normativo, appare comunque incompleta.

In merito alla responsabilità civile (su chi ricade l’onere di risarcire il danno), una recente sentenza del tribunale di Sulmona ha stabilito che sono i genitori dei minori a doverne rispondere.

Nel caso specifico una ragazza 14enne denunciò la pubblicazione su Facebook di foto in cui era ritratta nuda, foto che erano conservate su telefonini di amici e conoscenti.

Occorre dire che in sede penale gli indagati sono stati prosciolti, ma in sede civile le richieste di risarcimento del danno da parte dei genitori della 14enne, sono state parzialmente accolte, con una condanna al pagamento di oltre 100mila euroa carico dei genitori dei minori che hanno diffuso le foto senza consenso.

Secondo il Giudice “è in capo al genitore l’onere di provare e di dimostrare il corretto assolvimento dei propri obblighi educativi e di controllo sul figlio, solo in tal modo potendosi esonerare dalla condanna risarcitoria“. Secondo la sentenza “i fatti esprimono, di per sé, una carenza educativa degli allora minorenni, dimostratisi in tal modo privi del necessario senso critico di una congiura capacità di discernimento e di orientamento consapevole delle proprie scelte nel rispetto e nella tutela altrui. Capacità che invece avrebbero già dovuto godere in relazione all’età posseduta. Tanto è vero che alcuni coetanei ricevuta la foto non l’hanno divulgata“.
Il Giudice ha stabilito che il risarcimento andrà solo alla 14enne, non risparmiando nemmeno i suoi genitori che “non avrebbero vigilato sulla condotta imprudente della propria figlia, da cui sarebbero partite le foto osé”.

 

 

 

Va comunque posto un altro quesito: Il soggetto che volontariamente cede immagini pornografiche non ha nessuna tutela nel caso in cui tale soggetto le divulghi a terzi?

 

Pensiamo ad esempio al revenge porn (Immaginiamo un fidanzato che, quando i rapporti si deteriorano, comunque rimane in possesso delle foto, e che potrebbe diffonderle per “vendicarsi”).

Revenge porn è la pornografia per vendetta: pubblicare su social network foto personali dell’ex partner per vendicarsi.

Se è vero infatti che il secondo comma del 600 ter punisce chi commercializza materiale pedo pornografico, il terzo chi lo distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza e il quarto chi lo offre o cede ad altri, è pur sempre vero che tali condotte presuppongono, inevitabilmente, che promotore sia un soggetto che abbia prodotto il materiale utilizzando soggetti minori.

Le Sezioni Unite con sentenza m.13 del 2000, fornendo una precisa chiave di lettura del dato normativo, avevano già provato a chiarire cosa si intendesse per “sfruttamento”, quale utilizzazione del minore a qualsiasi fine, quindi anche senza fini di lucro: significa insomma offendere la oro personalità, in un aspetto cosi intimo e delicato come quello sessuale, dunque tanto più fragile e bisognoso di tutela.

Tale binomio minore/mezzo spinge ad un’operazione ermeneutica volta ad escludere da quelle penalmente rilevanti e quindi perseguibili da parte dello Stato, condotte non implicanti una tale strumentalizzazione/soggezione del minore.

A venirci in soccorso è Il disegno di legge approvato in via definitiva il 17 luglio 2019, che introduce due fattispecie di reato diverse:

la diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate da parte di chi queste immagini le ha realizzate e da parte di chi le riceve e contribuisce alla loro ulteriore diffusione al fine di creare nocumento alle persone rappresentate.

L’inserimento dell’art. 612 ter c.p. rubricato «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti» inizialmente non era previsto nell’articolato iniziale ma è stato inserito durante la discussione in Assemblea del 2 aprile 2019, nonostante fosse stato già presentato analogo e più organico disegno di legge in Senato.

<<Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 5.000 a euro 15.000

  La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

  La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici (revenge porn).

  La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio».

Dal punto di vista soggettivo, si tratta di un reato comune e il dolo è generico.

Invece, dal punto di vista materiale, gli elementi costitutivi del reato richiedono una progressione fattuale ben circoscritta.

Come abbiamo già anticipato in precedenza la condotta tipica è composta, in primo luogo, da un antefatto anche non punibile (salvi i casi di interferenza illecita nella vita privata di cui all’art. 615 bis c.p., tanto per fare un esempio), ossia la realizzazione o la sottrazione di immagini o video dal contenuto «sessualmente esplicito» e la successiva «pubblicazione» o «diffusione» dello stessoil fatto, per essere rilevante, deve avere per oggetto materiale che doveva «rimanere privato» e diffuso «senza il consenso delle persone rappresentate».

Quando uno scambio, per giunta effettuato attraverso l’etere, può essere definito privato?

Regola di esperienza comune rimane questa “tutto ciò che avviene privatamente deve rimanere privato” salvo consenso dato nelle forme adeguate ai fatti ed ai protagonisti della vicenda.

Il conseguente invio, consegna materiale, cessione, pubblicazione ovvero la diffusione fa scattare la punibilità.

Il fatto viene punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da € 5.000 a € 15.000.

Puniti invece al secondo comma chi riceve o acquisisce il materiale intimo e pone in essere le condotte del primo comma senza il consenso delle persone riprese, ma con un quid pluris, ovvero al fine di «recare loro nocumento».

Il dolo, difatti, è specifico in quanto l’agente deve essere consapevole, oltre di stare ponendo in essere la condotta tipica, di rappresentare l’ulteriore scopo di arrecare un danno (all’immagine, alla salute, al patrimonio ecc.) al di là della realizzazione dello stesso.

Il legislatore, probabilmente, ha voluto mediare fra l’esigenza di fermare in tempo utile la diffusione delle immagini, e quella di escludere le condotte di chi lo fa dimostrando di non aver voluto arrecare offesa.

Il paradosso è che l’agente dovrà dimostrare di avere concorso nella diffusione senza voler danneggiare nessuno: la clausola sembra, tuttavia, essere stata inserita dal legislatore al fine di proteggere il diritto di difesa (soprattutto nei casi bordeline)

L’equiparazione del regime sanzionatorio appare comunque contraria al principio di proporzionalità fra i due fatti (cioè chi produce e diffonde e tutti gli altri

I dati comunque sono allarmanti.

Estremamente interessante il dato circa la personalità del minore vittima e/o autore di tali fattispecie criminose.

Dall’analisi dei campioni esaminati sembrerebbe del tutto scisso da variabili quali: provenienza etnica, status economico, incensuratezza e ambito familiare, e destinato a subire un drastico aumento.

 

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